dal 1999 testimone di un’evoluzione

Jean-Luc Godard e la nouvelle vague

Il cinema ai tempi della rivoluzione

Al ladro d’automobili László Kovács alias Jean-Paul Belmondo, protagonista del film “Fino all’ultimo respiro” diretto da Jean-Luc Godard nel 1960, a certo punto della storia viene chiesto se è meglio il dolore o il nulla… il nostro anarchico individualista con smanie distruttive risponderà che preferisce il nulla, perché il dolore puzza di compromesso.

Siamo nel cinema ai tempi della rivoluzione, la fantasia vuole andare al potere e il cinema le presta l’arma più incisiva, quella dello svizzero francese Jean-Luc Godard che con i suoi film vuole stupire il mondo.

“Fino all’ultimo respiro” è il suo primo lungometraggio, nasce da un soggetto di François Truffaut all’interno di quella agguerrita ondata di nuovi cineasti francesi che si sono opposti al vecchio cinema di Renè Clair, di Henri-Georges Clouzot e di Marcel Carnè, fondando un movimento, “La Nouvelle Vague”, che si propone di ricreare il cinema d’autore e di ringiovanire lo stanco psicologismo di quella vecchia cinematografia francese. Hanno una rivista, “Cahiers du Cinéma” dalla quale sparano a zero su tutto ciò che puzza di vecchio e di tradizione e “Fino all’ultimo respiro” sarà l’autentica bandiera di questo nuovo movimento.

La vera rivoluzione di “Fino all’ultimo respiro” non è tanto nella storia del ladro d’auto che da Marsiglia volge a Parigi per piazzare una macchina rubata e per incontrare una ragazza americana di cui si è invaghito, la vera rivoluzione di questa opera è nel linguaggio cinematografico, nello stile di ripresa e nel modo tutto filosofico e autoreferenziale che Godard applica su una storia per il cinema carica di novità per l’epoca.

Prima di tutto si gira dal vero, in mezzo alla strada, non ci si preoccupa se i passanti guardano in macchina incuriositi, “tanto è cinema”, dice Godard. Stessa regola anche per gli attori che in tante situazioni di dialogo puntano lo sguardo in macchina anziché nei confronti dell’interlocutore. Ma è forse nel montaggio la più grande novità, Godard non ha praticamente alcun rispetto per quello che nel linguaggio tecnico si chiama “il raccordo”, lui lo spezza, lo rompe, lo disintegra con una determinazione assolutamente provocatoria. Non si preoccupa della continuità filmica dell’azione, anzi teorizza il contrario e inventa una tecnica che prenderà il nome di “jump-cut”. Questo sistema vuole stigmatizzare un concetto: al cinema se un personaggio apre una porta non necessariamente si deve vederla richiudere, il montaggio serve a portarci dove l’azione è più interessante e ad eliminare i passaggi e le zone morte. “Fino all’ultimo respiro” è la prima sistematica operazione di distruzione della continuità dell’azione, di fatto Godard smaschera il cinema confezionato, lo sbriciola sotto gli occhi dello spettatore e ci racconta una storia, magari antica, ma con l’ansia frenetica della discontinuità moderna. Il risultato finale è un grande successo di pubblico e non solo, perché anche la critica, unanimemente concorde, incorona Godard come un nuovo grande precursore.

Jean-Luc Godard è un regista che ha saputo influenzare in lungo e in largo la storia e i linguaggi della settima arte. Adorato come genio ma anche odiato per il suo stile perennemente provocatorio e a tratti narcisistico, è il cineasta che ha fatto del suo mestiere una vera e propria religione. Svizzero di origine, figlio di un ricco banchiere che lo costringe a studiare, cresce a Parigi frequentando il cineclub del quartiere latino. Diventa amico di Jaques Rivette, di François Truffaut, di Louis Malle, di Éric Rohmer, di tutti i registi che di fatto hanno dato vita alla Nouvelle Vague, cominciando da subito a lavorare come critico cinematografico alla rivista “Cahiers du Cinéma” diretta da André Bazin.

Dopo il suo capolavoro d’esordio conoscerà un’attività creativa frenetica e quasi geniale, con pochi soldi e scarsissimi mezzi tecnici, realizza dei film memorabili e sconcertanti su vari argomenti che sono come dei saggi: donne, amore, politica e società.
I titoli sono tanti, “Questa è la mia vita” (1962) , “Il disprezzo” (1963), “Bande à part” (1964), “Una donna sposata” (1964), “Il bandito delle ore 11” (1965).

Lucidità, freschezza, provocazione e intelligenza sono la linfa principale di questi film gioiello. Le immagini apparentemente slegate tra di loro sono in realtà pensate, organizzate e filmate con una perfezione cinematografica rara e unica. Vero e proprio iconoclasta, usa suoni e immagini come unghie con cui graffiare. Il suo credo cinematografico lo porta a vivere il cinema come una vera e propria battaglia in campo aperto e a viso scoperto, cercando continuamente di provocare emozioni, possibilmente inquiete e disturbanti, sullo spettatore.

Poi però, a un certo punto della propria carriera artistica, la politica prenderà il sopravvento, Godard si radicalizza, si lascia trascinare verso una militanza sempre più estrema, smette di fare film politici e comincia a fare cinema politicamente. Di questo periodo a cavallo con il ’68 realizza film come “Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica” (1967), “La gaia scienza” (1969), “Crepa padrone, tutto va bene” (1972). Lo smalto iniziale si è già appannato, lo snobismo ha preso il sopravvento e il talento di Godard sta diventando sempre più un’arida provocazione per pochi intimi.

Negli anni ’70 insieme a Jean-Pierre Gorin fonda una società denominata Dziga Vertov (il nome di un grande documentarista sovietico), per sperimentare in video nuove forme di espressione. Realizza ancora film: “Prénom Carmen”(1983), “Je vous salue, Marie” (1985), ma nulla potrà raggiungere lo shock dirompente dei suoi inizi.

Il suo è un po’ il destino dei grandi iniziatori e dei provocatori: indispensabili per rompere le regole del gioco, ma invadenti e faticosi quando il gioco diventa fine a se stesso.

data: 30/07/2012