Cronache dalla sala – Il cinema “pateticamente” corretto
Di fronte all’epica avventura di “Thor”, ultimo fumetto Marvel sul grande schermo e primo prodotto cinematografico (per ora) in esclusiva 3D, ci troviamo immersi nel mistico regno di Asgard; al centro della storia c’è il mitico Thor un eroe guerrafondaio che viene bandito dal suo regno e catapultato sul nostro pianeta. Ma quando il malvagio antagonista e fratellastro Loki si prepara a invadere la terra il nostro dio del tuono capirà cosa significa essere prode e valoroso.
Per questa ennesima riproposta filmica di un fumetto firmato Stan Lee e Jack Kirby non basta la regia di un veterano del cinema come Kenneth Branagh per cercare di dire qualcosa di diverso, la storia del dio del tuono figlio di Odino principe presuntuoso destinato al trono, che imparerà il valore del comando solo dopo un percorso formativo a base di rapporti umani, strizza decisamente l’occhio all’incerto presente americano e alla sua traballante politica estera soprattutto quando affronta, con tutta la rassicurante retorica del caso, il significato della guerra da parte di un popolo.
Si sa, l’America dopo l’undici settembre non è stata più la stessa… crollate le certezze di un sogno sono affiorate implacabili le paure rispetto a fantomatici nemici e le perplessità verso certi incomprensibili conflitti. Di fronte al confuso presente spesso il cinema mainstream si trasforma in uno strumento di propaganda particolarmente funzionale per tranquillizzare l’animo tormentato del proprio cittadino.
Ne è la controprova anche il recente “Source Code” del bravo Duncan Jones, un film che inscena e rappresenta le paure di un paese indebolito dall’effetto Torri Gemelle. L’America raccontata da Jones attraverso un futuribile esperimento governativo che ha lo scopo di indagare su un attentato terroristico, racconta attraverso la metafora della narrazione cinematografica le paure di una società bisognosa di spiegazioni ma soprattutto desiderosa di una nuova generazione di eroi in grado di mettere ordine al caos generato dalla disillusione.
Gran parte dei giovani registi oggi faticano a esprimere originalità nel racconto, c’è fin troppa empatia rispetto al contesto sociale nel quale vivono, di fatto gli autori moderni di cinema sono particolarmente propensi a diventare i portavoce di un sistema sociale negando quel distacco necessario per raccontare e criticare la realtà che li circonda.
Senza andare troppo indietro basterebbe fermarsi agli anni 80 per ricordare come San Peckinpah con il suo ultimo film d’azione e spionaggio “Osterman Weekend” (1983) riuscì a raccontare attraverso un feroce atto d’accusa la manipolazione televisiva, delineando un’America aggressiva e rabbiosa dove tutti erano responsabili e colpevoli. John Carpenter qualche anno più tardi con il suo sarcastico “Essi vivono” ci portò a vedere un mondo capitalista dominato sordidamente da una popolazione aliena che trattava il genere umano come razza inferiore da sfruttare senza riserve. Molto simile nello stesso periodo anche l’irriverente ritratto di un paese da parte di Brian Yuzna con “Society – The Horror”, dove l’élite sociale era un putrescente e ingordo blob carnale. Società iper-violenta a base di martellanti telegiornali “gore”, lobby industriali senza scrupoli e politici corrotti era invece il futuro non troppo lontano raccontato da Paul Verhoeven in “Robocop”. In quei tempi c’erano anche George A. Romero che con la sua saga sugli zombie ci raccontava come il sistema consumistico portasse l’individuo verso una paranoia cronica, David Cronemberg con le sue vertiginose e tragiche apologie sul mutamento carnale e David Lynch che con il suo cinema si insinuava nel tessuto sociale più recondito e morboso.
Ora tutto è sempre più politicamente e… “pateticamente” corretto, dai film che vincono i festival a quelli nominati agli Oscar fino ad arrivare ai blockbuster, la zuppa è sempre quella: regalare modelli di sicurezza e speranza, un po’ come fanno le chiese nel mondo…
data: 03/05/2011