dal 1999 testimone di un’evoluzione

Jean Eustache

L’altra faccia del cinema

Jean Eustache, classe 1937, è un cineasta francese quasi sconosciuto in Italia, fatta eccezione per il suo film più famoso “La Maman et la Putain” (1973).
Nato a Pessac, verso la fine degli anni ‘50 Eustache si trasferisce a Parigi, dove entra nel circolo dei critici dei Cahiers du Cinéma, stringe amicizia con François Truffaut ed Eric Rohmer e intraprende la carriera registica fiancheggiando la Nouvelle Vague. Eustache si dimostra forse tra i pochi veri eredi di quella generazione di cinéphiles passati alla regia. Lo dimostra prima di tutto l’approccio molto particolare alla materia cinematografica: l’uso indiscriminato di diversi formati e supporti, l’attenzione per il documentario, il suo apprendistato come montatore, l’amore per l’artificio, la ripetizione, la simulazione, il “fare falso” nonché la libertà espressiva mai sottomessa all’ufficialità delle grandi produzioni. Eustache pagherà a caro prezzo questo suo atteggiamento, finendo la sua carriera prematuramente: infatti si suicidò nel 1981 dopo essere stato immobilizzato per mesi in seguito ad un incidente automobilistico.

Diventa dunque necessario chiarire ogni equivoco sul “cineasta maledetto”. Eustache amava il suo lavoro, questa era la sua “maledizione”: considerare il “fare” cinematografico come qualcosa di urgente e di vitale. Varrebbe la pena provare a raccogliere i capitoli della sua carriera cinematografica, per verificare il valore della sua opera, che, oltre al già citato “La Maman et la Putain”, comprende film di grande rilievo teorico come “Une sale histoire” (1977), uno struggente inno all’adolescenza, “Mes petites amoureuses” (1974) e documentari come ”Numéro Zéro” (1971), “La Rosière de Pessac” (1968) rigirato una seconda volta, sugli stessi luoghi, dieci anni dopo. Senza dimenticare un breve film dedicato al Giardino delle delizie di Bosch insieme ai suoi primi folgoranti lavori: “Les Mauvaises Fréquentations” (1963) e “Le Père Noël a les yeux bleus” (1966). Ma per conoscere e capire meglio le virtù e la personalità di questo regista, riportiamo di seguito alcune stralci da una sua intervista del 1974 in cui parla del suo film più famoso “La Maman et la Putain”.

“…odio quel genere di cinema in cui il regista strizza continuamente l’occhio allo spettatore. La Nouvelle Vague ha condotto una vera e propria battaglia contro questo modo di fare. In linea di principio, penso che il pubblico debba saperne un po’ meno dei personaggi e, per così dire, mettersi sulle loro tracce. La narrazione deve mantenere una certa distanza. Non credo all’illusione della partecipazione, ai grandi ritratti dipinti nei primi dieci minuti del film. Per quanto mi riguarda, la conoscenza dei personaggi deve procedere di pari passo con la conoscenza del film. È un metodo che esige l’abbandono di molti pregiudizi e la disponibilità a percorrere nuove vie. Il mio film adotta un’estetica che si raccorda al carattere dei personaggi. Ero ben cosciente del problema della durata, ma sono stato obbligato a fare come ho fatto, perché il tempo era il soggetto del mio film. Non raccontavo una storia in cui i personaggi evolvono secondo i soliti canoni, realizzavo un film in cui, al di fuori della scena della mostra (circa tre minuti), ridotta all’essenziale, non succede nulla; ho pertanto avuto bisogno di molto tempo per filmare un momento, un istante indefinito, una stasi. Non si tratta di un film costruito restando in superficie, ma in profondità. Il contrario, dunque, di Red River, dove la conquista era condensata in un soggetto e in uno spazio; forse un po’ Rossellini intorno al 1947, quello di La voce umana. (…) Il film inizia in prima persona per terminare con numerose prime persone. Comincia al singolare e finisce al plurale. Lo spettatore deve avvertire questa metamorfosi, ma poiché si tratta di una svolta invisibile, lo spettatore ignora al pari di me in che momento si sia prodotto questo cambiamento. E non si tratta affatto di un trucchetto: non ricorro ad astuzie disoneste del genere capovolgimenti della logica di una situazione, trappole ecc. Questa metamorfosi si compie infatti a poco a poco nel corso del film, davanti allo spettatore come davanti al regista. (…) Tra il momento in cui ho scritto il film, il momento in cui ho girato e il momento in cui ho montato, ho cambiato completamente parere su chi fosse il personaggio principale. Quando scrivevo il film, era Jean- Pierre Léaud; poi è diventato Françoise Lebrun e, alla fine, Bernadette Lafont. Io stesso ho subito le modificazioni del film. Forse perché mi piace lavorare liberamente, i tre momenti principali della realizzazione, scrittura, riprese, montaggio, si sono distrutti a vicenda.
(“Positif”, n. 157, 1974)

Alcuni dei suoi lavori più importanti:

LA MAMAN ET LA PUTAIN
(Francia/1973, 220’)

Tre ore e quaranta minuti: duecento venti minuti cristallizzati sulla punta di uno spillo. Un film in stato di grazia: uno dei pochi casi in cui – davvero – il tempo esce dai suoi cardini, in cui lo spazio e il tempo cinematografico si fondono, annullandosi. Il più bel romanzo francese degli anni ’70: i più bei dialoghi (trascritti e rubati, strappati alla vita: un film vampiro ed autobiografico). Saint Germain de Près non era ancora quel luogo lugubre per miliardari e turisti americani. Léaud passa il tempo al “Deux Magots”, beve whisky, porta occhiali scuri. Inoperoso Don Giovanni, legge Proust, seduce giovani donne: uscendone con le ossa rotte. “La Maman et la Putain a detta di molti è l’unico film “Maggio ’68” del cinema francese.

LA ROSIÈRE DE PESSAC
(Francia/1979, 67’)

Una festa paesana sopravvive a Pessac: profonda Francia e città natale di Eustache. Durante questa festa viene eletta regina la ragazza più meritevole dell’anno. E’ la festa della “ragazza virtuosa”. Rito, cerimonia, etnologia, documentario: Eustache filma due volte la festa: nel ’68 e dieci anni dopo. “E’ l’idea del tempo che mi interessa”, dice Jean Eustache. Pochi cineasti avrebbero mantenuto con tanta ostinazione una delle idee audaci della Nuovelle Vague ai suoi debutti: che un film non abbia una durata standard (la fatidica ora e mezza), ma che duri il tempo di produrre il suo soggetto e di circoscriverlo. Ogni film di Eustache è una sfida, una torsione particolare del tempo.

LES MAUVAISES FRÉQUENTATIONS
(Francia/1963, 42’)

Quartiere di Pigalle. I due protagonisti maschili ci accompagnano tra i bar, le vie del quartiere: si passa il tempo, si gioca a flipper, si osservano le ragazze. Fin dall’inizio, il cinema di Eustache si inscrive naturalmente in questo tempo guadagnato sulla noia, questo tempo di vita dove soprattutto non si deve lavorare, nulla produrre, solo rubacchiare qui e là alcuni istanti fugaci, sbrigandosela con poco denaro in tasca. Dalla mancanza di mezzi, Eustache trae la sua forza, una seduzione e un senso inaudito della piroetta, che fanno pensare a Jean Vigo.

LE PÈRE NOËL A LES YEUX BLEUS
(Francia/1966, 47’)

1966. Godard cede a Eustache parte della sua pellicola utilizzata per filmare “Masculin Feminin”. Il risultato è “Le père Noël a les yeux bleus”. Jean-Pierre Léaud, travestito da Babbo Natale, distribuisce gaiezza nella provincia francese e seduce giovani passanti… Incrocio tra finzione e documentario: i dispositivi si confondono, vengono sviati. Narbonne – città cara ad Eustache – viene filmata nella freddezza glaciale dell’inverno: malinconia della provincia, rituali fissi, passeggiate, tempo in pura perdita. Un giovane uomo biondo buca l’inquadratura: è Jean Eustache.

OFFRE D’EMPLOI
(Francia/1980, 19’)

Ultimo film di Eustache, realizzato per la serie televisiva “Contes modernes”. Un uomo (Michel Delahaye, ex critico dei Cahiers) si appresta a consegnare una domanda d’impiego ad una ditta commerciale: foto e curriculum scritto – obbligatoriamente – a mano. Il direttore (Jean Douchet) spedisce i curricula ad un’esperta grafologa. Sarà lei a decidere chi avrà le qualità per meritare il posto. Semplicità e precisione della messa in scena, sottile umorismo che nasconde un concreto pessimismo per il futuro. “Il mondo è ormai una prigione. Con la grafologia e la fonologia, scrittura e parola sono negate, esse non vivono più la loro vita, non hanno senso se non per disporre le basi di un ritratto robot psicologico”.

NUMÉRO ZÉRO
(Francia/1971, 107’)

Numéro Zéro è un film di due ore, girato con due macchine da presa, che consiste essenzialmente in un dialogo tra Jean Eustache e sua nonna (originariamente – ci riferisce Jean-Marie Straub – il film si intitolava La grand-mère). Tagliato di un’ora, appare alla televisione con il titolo di Odette Robert. Nel 2003 viene riportato al suo metraggio originario. “Si tratta dunque di una traversata del tempo fatta da una vecchia donna, tra i suoi parenti e i suoi nipoti, e vediamo sei generazioni della storia della Francia raccontate da lei, Odette Robert, mia nonna. In Numéro Zéro, nell’originale, non ho tagliato nulla (…) Il tempo del film è stato quello della pellicola, con le due macchine da presa che giravano alternativamente, sovrapponendosi, senza mai tagliare. Allora, il film, è la storia della pellicola, dal suo inizio alla fine”.

MES PETITES AMOUREUSES
(Francia/1974, 123’)

La Maman et la Putain fa scalpore a Cannes. Eustache si appresta a ritornare a Narbonne, dove girerà Mes petites amoureuses. Un film sull’infanzia. Un film amaro, impregnato di tristezza. Se nel film precedente la parola sfiniva fino al vomito, Mes petites amoureuses somiglia invece ad un film muto. Eustache fa qui i conti con Robert Bresson. “Mes petites amoureuses” è un film che sa che le più grandi ferite dell’infanzia, quelle che lasciano il segno in maniera indelebile, non sono sempre associate ad avvenimenti gravi, ma si inscrivono volentieri in piccole scene senza importanza per gli altri, dove un ragazzino vede con terribile lucidità e un crudele tocco d’immagine il posto esatto al quale si scopre già condannato nelle scene della sceneggiatura di quella vita in cui, bene o male, dovrà entrare”.

data: 08/10/2007