dal 1999 testimone di un’evoluzione

Jean Renoir

“Il regista perfetto”

Jean Renoir, figlio secondogenito del pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir, nasce a Parigi il 15 settembre 1894. Cresciuto a Montmartre a contatto con i maggiori artisti e intellettuali del tempo, compie gli studi in un collegio e a vent’anni, allo scoppio della prima guerra mondiale, si arruola nel Corpo dei Dragoni come allievo ufficiale e viene mandato al fronte e ferito ad una gamba rimane zoppo per tutta la vita. Dopo la fine del conflitto apre una fabbrica di ceramiche e nel 1920 sposa Andrée Heuchling in arte Catherine Hessling, una delle modelle di suo padre, che in seguito apparirà in alcuni dei suoi film, tra cui “La ragazza dell’acqua”, “Nanà” e “La piccola fiammiferaia”.
Appassionato di cinema (soprattutto americano) già in tenera età, decise di intraprendere la carriera cinematografica dopo aver assistito alla proiezione di “Femmine folli” di Erich von Stroheim (1921).
Mostra da subito di voler percorrere una strada indipendente, con un’idea di cinema del tutto personale.
Il suo primo lungometraggio, La ragazza dell’acqua (1924), è una favola bucolica sull’estetica impressionista, dove si nota decisamente l’influenza della grande arte pittorica del padre, nel quale recitò oltre alla moglie, suo fratello maggiore, Pierre Renoir. Il film venne accolto tiepidamente dal pubblico, ma Renoir non si fece scoraggiare e da lì a poco, nel 1926, si lanciò in una produzione piuttosto costosa, ovvero Nanà (tratto liberamente dal romanzo di Émile Zola) in cui il suo gusto per la rappresentazione della natura comincia a palesarsi così come nella fiaba La piccola fiammiferaia del 1928.
Il suo primo film sonoro, La purga al pupo del 1931, tratto da Georges Feydeau, è una farsa che fece scalpore per la registrazione in diretta del semplice suono di uno sciacquone da gabinetto, cosa che a quei tempi apparve straordinaria, e che gli permise una totale autonomia nella direzione di La cagna (sempre del 1931). Fu uno dei primi film parlati, tratto da un feuilleton di Georges de La Fouchardière, è un film verista e crudele, una sorta di noir/commedia incentrato sul lato meschino dei rapporti di coppia in cui il regista abbandona le influenze pittoriche e le raffinatezze letterarie per tendere il più possibile alla realtà. L’anno successivo realizza un altro noir di altissimo rango, La notte dell’incrocio (1932), tratto da George Simenon e subito dopo Boudu salvato dalle acque, interpretato magistralmente da Michel Simon (probabilmente l’attore preferito di Renoir), una delle sue opere più geniali e insieme più misconosciute la cui riscoperta si deve principalmente alla Cinémathèque di Parigi. Il film che segue, Madame Bovary (1934), risulta di poco conto; appare di ben altro vigore Toni del 1934 (per cui si serve di attori non professionisti), ispirato ad un fatto di cronaca, ovvero la storia di una donna spagnola che uccide il marito e lascia incolpare il proprio amante, per poi confessare il delitto dopo che quest’ultimo è stato impiccato. Secondo il critico Sadoul proprio questo film «apre la strada al neorealismo italiano».
Seguirono: Il delitto del signor Lange (1935, con la sceneggiatura di Jacques Prévert), I bassifondi (1936) e La scampagnata (1936) in cui Luchino Visconti gli farà da aiuto-regista.
Poi è la volta de La grande illusione (1937), racconto della drammatica evasione di quattro soldati francesi da un campo tedesco durante la prima guerra mondiale, forse il lavoro più celebre di Renoir interpretato da Jean Gabin e da Von Stroheim; L’angelo del male (1938), in cui un macchinista ferroviere figlio di alcolizzati si trasforma da ottimo ragazzo in furia sanguinaria, La regola del gioco (1939), probabilmente il suo maggior film, sicuramente il più graffiante e insieme il più brillante. Qui Renoir esibisce un cinismo insolito, che demolisce la grande borghesia francese dell’epoca, non risparmiando però i suoi servi, classe subalterna che assume risvolti grotteschi quando si rispecchia nei padroni. È la vigilia della seconda guerra mondiale, e alla prima al Coliseum di Parigi il film viene fischiato e subito proibito dalla censura militare perché considerato «décourageant» ovvero sconfortante. L’opera forse più raffinata di tutta la sua filmografia, rimasta notoriamente incompiuta, è Una gita in campagna (1939), esempio di novella cinematografica, ambientata alla fine del secolo scorso.
Poco tempo dopo si imbarca per gli Stati Uniti, ingaggiato dalla Fox. A contatto con Hollywood sembra però che la sua creatività cali di tono. Dirige La palude della morte (1941), Questa terra è mia (1943), Salute to France (1944), Il diario di una cameriera (1946), La donna della spiaggia (1947), tutti film non memorabili, ad eccezione di L’uomo del Sud (1945), che narra la dura esperienza di un contadino innamorato della terra che deve superare mille difficoltà per poter dare pane sicuro alla sua famiglia e che è forse il suo miglior film americano. Più intenso ed affascinante è Il fiume (1951, interamente basato sull’autobiografia dello scrittore Rummer Godden), film a colori girato in India che ebbe un’influenza duratura sullo stesso cinema indiano. Narra la storia di una famiglia inglese contrappuntata dai lenti ritmi della vita che scorre lungo un grande corso d’acqua, il Gange, e che il regista coglie con sguardo carico di lirismo.
Nell’ultimo periodo della sua vita d’autore non riesce più a raggiungere le vette della sua arte passata. Dirige con abiltà consumata, ma senza più la tensione di un tempo, La carrozza d’oro con Anna Magnani; quindi torna in Francia, dove dirige Eliana e gli uomini (1956) con Ingrid Bergman, Picnic alla francese (1959) e Le strane licenze del caporale Dupont (1962). Particolarmente interessante è Il testamento del mostro (1961) stupefacente trascrizione di “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, il classico di Stevenson.
Incontrando sempre più difficoltà nel produrre i suoi film, si rivolse allora alla televisione, e si dedicò più ampiamente alla letteratura pubblicando anche un libro su suo padre “Renoir, mon père” (1962) e la sua autobiografia.
Nel 1977 ricevette un Oscar per il suo contributo all’arte del cinema.
Nel 1970 si ritirò a Beverly Hills dove morì nel 1979.

Truffaut di lui diceva:
“Non è il risultato di un sondaggio, ma un sentimento personale: Jean Renoir è il più grande cineasta del mondo. Questo sentimento personale sono molti altri cineasti a provarlo e, d’altronde, Jean Renoir non è forse il cineasta dei sentimenti personali?”

“Dei trentacinque film di Jean Renoir, almeno quindici sono ricavati da opere preesistenti: Andersen, La Fouchardière, Simenon, René Fauchojs, Flaubert, Gorkij, Octave Mirbeau, Rummer Godden, Jacques Perret e tuttavia vi si ritrova sempre e immancabilmente Renoir, il suo tono, la sua musica, il suo stile, senza che l’autore di partenza venga mai tradito; e tutto questo semplicemente perché Renoir assorbe tutto, comprende tutto, si interessa a tutto e a tutti.”

data: 24/04/2009